LA CROCE DI GERUSALEMME

I simboli rimandano sempre ad uno sguardo invisibile al mondo, ad una struttura che non si vede ma che è reale, ad “un complesso sistema di affermazioni coerenti sulla realtà ultima delle cose” (M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Rusconi, 1975, p. 15)

E’ attraverso il simbolo che tutto ciò che vediamo assume un significato, perché esso viene prima di ogni filosofia, di ogni dottrina e di ogni concettualizzazione. E’ come se il simbolo richiamasse a sé archetipi immortali e radicati nella natura intrinsecamente religiosa dell’uomo.

“Non si tratta di un linguaggio utilitario e oggettivo. Il simbolo non ricalca la realtà oggettiva. Esso rivela qualche cosa di più profondo e di più fondamentale” e “ci guida sempre verso il mistero della nascita, dell’amore, della fecondità, del rinnovamento, della morte e della resurrezione, dell’iniziazione, del passaggio da un modo d’essere all’altro” (Id, Spezzare il tetto della casa, p. 225).

La simbologia cristiana non sfugge a questi principi, ma, anzi, li porta alla sua massima regalità formale e sostanziale.

La Croce di Gerusalemme, ad esempio, è una croce potenziata con quattro piccole croci ed il suo significato va svestito dalle mode della modernità e riportata alla sua dignità metafisica e spirituale.

Alcuni ritengono che in origine essa fosse diventata simbolo del regno di Gerusalemme, altri la fanno derivare dai sigilli dell’imperatore latino di Costantinopoli, ma con certezza conosciamo la sua connotazione teologica.

Infatti, nella tradizione iconografica cristiana la ripetizione di elementi decorativi su di un piano è simbolo dell’infinito e viene chiamato “seminato”. La croce di Gerusalemme è, dunque, un esempio di seminato e nel pensiero dei cristiani medievali esso rimandava direttamente al concetto di infinito e, dunque, di Dio, che andava ad intrecciarsi alla sua connotazione devozionale.

Infatti, le cinque croci presenti (le quattro piccole nei quadranti e quella grande al centro) sono simbolo delle 5 piaghe di Cristo, cagionate dai fori alle mani e ai piedi, nonché dallo squarcio della lama al costato. Un parallelismo che ritroviamo nella liturgia tradizionale, dove il sacerdote si segna cinque volte dinanzi all’ostia consacrata, pronunciando le parole hostiam puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam, panem sanctum vitae aeternae, et calicem salutis perpetuae.

Nella cappella degli Scrovegni affrescata a Padova da Giotto (1300-1305) troviamo la croce di Gerusalemme come simbolo della “Militia Christi” celeste, che trova il suo risvolto nell’isola di Cipro, che per secoli fu l’isola rifugio dei crociati, dove vi sono numerosissime tracce di croci di Gerusalemme. 

Fu proprio in epoca medievale che Papa Clemente affidò ai francescani di Terra Santa la cura dei pellegrini latini.  L’Ordine del Santo Sepolcro, da loro promosso,  veniva onorato con il conferimento della croce di Gerusalemme per chi si era recato in pellegrinaggio a Gerusalemme ed il simbolo veniva cucito sull’abito dei pellegrini, così che, accanto al ramo di palma, la croce gerosolimitana divenne l’attributo principale del pellegrinaggio in Terra Santa. 

Dopo la perdita della Terrasanta per mano dei musulmani, il titolo fittizio di Re di Gerusalemme si tramandò attraverso le più illustri famiglie regnanti d’Europa, che sempre vollero includere la croce di Gerusalemme nel proprio emblema e campeggiò nei vessilli dei Lusignano, degli Angioini, degli Aragonesi, dei Valois, degli Asburgo, dei Borbone, ed era ben visibile, ancora nel 1931, nel vessillo dei re di Spagna, prima che anche la monarchia iberica venisse spazzata via dalla Rivoluzione e dalla repubblica.

Oggi è il simbolo della Custodia francescana di Terrasanta, del Patriarcato latino di Gerusalemme e dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro.

La Croce di Gerusalemme ci accompagna nell’intimità della storia cristiana e della Tradizione, ma, ancor più, richiama l’archetipo del militum Christi, di colui che, lavato dalle cinque piaghe, combatte lo spirito del mondo ad imitazione di Colui che vinse il mondo e che, fino alla fine dei tempi, sta a capo del suo esercito di pace nello scontro con le potenze avverse, in attesa della vittoria finale.

Onoriamo i nostri simboli. Conosciamoli, amiamoli, portiamoli, vivifichiamoli con una testimonianza degna del loro significato.

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MARIA, TESORIERA DI BELLEZZA

In data 8/06/2019 si è tenuto presso il Duomo di Castelnuovo Garfagnana l’incontro intitolato: Maria, tesoriera di bellezza, di cui presentiamo di seguito un resoconto argomentativo.

La beata Vergine Maria è destinataria di grande devozione da parte del popolo cattolico, ma talvolta questo istintivo affetto verso la Madre di Dio viene a mancare di un’effettiva conoscenza di quale magnificenza risplenda la sua figura nel progetto di Dio.

Paradossalmente è Satana stesso che deve fare i conti con la reale identità di Maria SS. e, attraverso la sua dannazione eterna, ci mostra a quale grandezza fosse destinata la Regina degli Angeli.
Infatti, Lucifero, il più potente e bello fra gli angeli di Dio, conoscitore dei più intimi segreti dei piani celesti e supervisore dei processi creativi dell’Altissimo, venne messo al corrente del progetto di Dio di incarnarsi in un uomo, avendo come unica ragione l’amore per le sue creature. Scandalizzato, Lucifero si turbò all’idea di dovere servire un Dio che avesse assunto una natura inferiore alla sua, ed iniziò a covare ribellione, la quale prese massimo sfogo nel considerare come la donna che avrebbe ospitato nel suo grembo la seconda Persona della SS. Trinità, sarebbe stata di così alto lignaggio spirituale da superare l’arcangelo stesso. Ella, infatti, sarebbe stata la “Piena di grazia”, un essere così altamente paradisiaco da non permettere al suo Signore di rimpiangere la purezza del Paradiso, nel quale nulla penetra che non sia completamente purificato.

Lucifero, che già covava ribellione al pensiero di servire l’incarnazione di Dio, pienamente cosciente di ciò che sarebbe costata la sua rivolta, mosse guerra a Dio, rifiutandosi di accettare il fatto che una donna gli sarebbe stata superiore.

La natura della Madonna, infatti, capolavoro del pensiero divino, sarebbe dovuta essere uno scrigno di celestiale purezza, per essere tempio congruo ad ospitare la perfezione della natura divina, ma, in ciò, noi ancora possiamo ammirare solo Maria come capolavoro di Dio. infatti, per una specialissima grazia, Maria fu oggetto dell’azione salvifica del Figlio, al fine di permettere l’incarnazione per mezzo della libera accettazione che Ella espresse di fronte all’angelo nunziante.

Se Maria, infatti, non ebbe merito nell’ottenere la grazia che la fece di un lignaggio spirituale ed umano al di sopra di qualunque altro, ebbe merito nel sapersi conservare perfettamente esente da peccato e da imperfezione alcuna.

E’ nell’annunciazione che, secondo i racconti evangelici, Maria inizia a costituirsi mediatrice tra Dio e l’uomo. Infatti, attraverso il suo assenso, si è costituita Porta attraverso cui Dio, totalmente spirituale, ha potuto avere accesso alla realtà materiale.

E’ bene constatare che l’arcangelo Gabriele non abbia chiamato Maria per nome, ma abbia usato il termine Kecharitoméne, che indica la pienezza della grazia, ovvero “tutta l’elargizione soprannaturale, di cui Maria beneficia in relazione al fatto che è stata scelta e destinata ad essere Madre di Cristo” (Redemptoris Mater n. 9)

Nel suo “fiat” era già presente in Maria la visione sofferente del suo futuro, in quanto conoscitrice profonda di quelle Scritture Sacre di cui non conosceva solo la forma, ma anche l’intima essenza.

Di questo futuro doloroso ne ebbe conferma durante la presentazione di Gesù al tempio, dove il vecchio Simeone le profetizzò che anche a Lei una spada avrebbe trafitto il cuore.

E’ in quel “anche” che si disvela il mistero della corredenzione. Infatti è tradizione della Chiesa intendere Maria parte attiva alla redenzione di Cristo, sia pure con le dovute premesse.
Noi rimaniamo ben coscienti del fatto che “non vi è che un solo Dio, uno solo è anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che per tutti ha dato se stesso in riscatto” (1 Tm 2,5-6).

Solo Cristo poteva portare conciliazione tra l’uomo e Dio, poiché l’offesa a Dio poteva essere sanata solo dal sacrificio di Dio stesso, il quale, assunta la natura umana, si è dato in espiazione per la nostra salvezza.

Il Padre, però, nel suo progetto, ha voluto rendere anche Maria partecipe di tale redenzione, per quanto in modo subordinato e non strettamente necessario, ma certamente in modo speciale.

Infatti, la nostra partecipazione ai dolori di Cristo ci ottiene merito personale al fine di accedere alla vita eterna, ma non aggiunge nulla a quanto già ottenuto da Cristo. Le nostre preghiere e le nostre sofferenze impetrano la richiesta di grazia, ma non rendono i meriti di Cristo più o meno efficaci.

Maria, invece, per quanto in modo subordinato, ha avuto una partecipazione attiva alla redenzione ed è per questo che è possibile chiamarla Corredentrice, seppure stando attenti a porre le giuste premesse.

Le nozze di Cana presentano un aspetto importante per segnare il titolo di mediatrice della Madre di Dio. Infatti, Maria interviene presso Gesù per chiedere miracolo, ottenendo una risposta spesso incompresa dagli esegeti: “Che vi è più fra me te te, donna?”. In realtà è una risposta squisitamente teologica, atta a rafforzare ancor più il rapporto esistente tra la madre ed il figlio. Se volessimo tentare una parafrasi, potremmo renderla così: “Fino ad oggi ti sono stato sottomesso come figlio e ti ho portato la dovuta obbedienza che si porta alla madre, ma ora sono il Redentore: è iniziata la mia missione pubblica e non ti sono più soggetto. Pertanto, accolgo la tua richiesta non per il fatto che mi sei madre, ma perché sei la prima fra le credenti ed è giusto che tu abbia miracolo per prima”.

E’ come se in questo episodio si concretizzi l’affermazione di Gesù, che avverrà più avanti nella sua predicazione: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”. Maria, per Gesù, non è più semplicemente madre, ma diventa tutto, poiché Lei è la più perfetta esecutrice della volontà di Dio tra le creature. Ecco, dunque, che come tale si fa mediatrice tra Dio e l’uomo.

L’aspetto della corredenzione ritorna prepotente al momento della passione di Cristo, il quale, morendo in croce, lascia una pesante eredità alla madre: la maternità non solo dei discepoli, ma anche di coloro che lo hanno ucciso. E qui inizia il Getsemani di Maria, la notte dello spirito, per dirla come San Giovanni della Croce, che la porterà spiritualmente nel sepolcro con il figlio. Lei, perfettamente vivente nella grazia di Dio, sarà apparentemente dalla grazia; Lei, la piena di grazia, abituata a perdersi a nei livelli più celestiali della contemplazione, sarà costretta a vedere solo la tenebra del sepolcro: dolore umano e soprannaturale intrecciati in un inesprimibile cumulo di sofferenza, durante la quale la corredenzione trova il suo apice. Anche in questo caso, nonostante il soffio diabolico le sussurrasse tentazioni la cui irruenza poteva essere sostenuta solo dallo splendore della sua perfetta virtù, rimase senza ombra di imperfezione.

Dalla sofferenza, finalmente la Risurrezione, nonché la Pentecoste, evento nel quale Maria viene incoronata dallo Spirito Santo come guida di carità degli apostoli, la Tutta Amore che, nella sua sapienza e fortezza, consiglia e guida il governo apostolico della neonata Chiesa. Guida difficile ma ferma, che si protrarrà fino al momento dell’Assunzione, giorno in cui la gloria di Dio la accolse come Regina del Cielo e della Terra, così come, ancora oggi, noi la veneriamo per farci suoi discepoli e figli, alla maggior gloria di Dio.

Di Paolo De Bei

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IL PUDORE

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Dopo il peccato originale, l’integrità dell’uomo andò perduta. Adamo ed Eva ”scoprirono” di essere nudi e se ne vergognarono e si cinsero i fianchi con foglie di fico (Genesi 3,7), ma la sapienza di Dio trovò che tale misura fosse insufficiente, e diede loro tuniche di pelle di animali, affinché si vestissero (Genesi 3, 21). Infatti, non tutte le tentazioni che assalgono l’uomo vengono dal demonio; alcune traggono origine dalla propria concupiscenza, come dice l’apostolo San Giacomo: «Ognuno è tentato dalle proprie concupiscenze, che lo attraggono e seducono» (Gc. 1,14). I vestiti, dunque, ebbero da subito l’utilizzo primario di coprire il corpo contro la concupiscenza radicatasi in noi, per dare modo di dare precedenza ai valori dell’anima e, quindi, per ordinare il comportamento al vero valore della persona secondo la legge di Dio.

La purezza che siamo chiamati a vestire “esige il pudore. Esso è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione” (CCC §2521)

“Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti” (CCC §2523), e “appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell’uomo” (CCC §2524).

Entrando nella stagione in cui il diavolo è chiamato alla vendemmia (l’estate è la vendemmia del diavolo diceva San Giovanni Bosco), è opportuno interrogarci quale sia in noi l’attenzione rivolta al pudore, e se, quest’ultimo, sia realmente conforme alla Beata Vergine Maria, modello vivente di purezza.

Certamente, non possiamo limitare l’intendimento del pudore al solo aspetto materiale, ma, altrettanto certamente, non ci è lecito considerarlo aspetto secondario.

Infatti, da un punto di vista meramente materiale, è vero che l’indumento presta al corpo solamente il servizio di vestirlo o di proteggere ciò che socialmente è sconveniente mostrare, ma è altrettanto vero che è espressione di come la materia debba prestare servizio allo spirito.

In un articolo del 1952, Plinio Correa de Oliveira scriveva: “Per una proprietà che non è solo convenzionale o immaginaria, ma che ha radici nel cuore della realtà, certe forme, certi colori, le qualità dei tessuti, producono nell’uomo determinate impressioni, che sono più o meno le stesse per tutti gli uomini”. Queste impressioni, precisa Plinio, producono negli uomini “stati di spirito, atteggiamenti mentali, ed in certi casi tutta un’inclinazione della personalità” ed è in questo modo che “l’uomo può, attraverso il costume, esprimere in certa misura la sua personalità morale”.

La moda odierna pone come suo presupposto lo stimolo di quella concupiscenza da cui, in origine, ci si volle proteggere proprio per mezzo dei vestiti. E’ stata attuata una rivoluzione nel mezzo, così da alterare il fine: l’indumento non è più concepito come uno strumento per coprire, ma come mezzo che vorrebbe indurre a scoprire, dichiarandosi espressamente via contro la modestia e contro la purezza.

A tal proposito S. Tommaso d’Aquino, il dottore angelico, così si esprime: “Se dunque [le donne] si ornano con l’intenzione di provocare gli altri alla concupiscenza, peccano mortalmente” ed egualmente gli uomini.

Già agli inizi del XX secolo, diversi Papi, hanno messo in guardia contro i pericoli degli abiti immodesti e immorali che stavano emergendo in quel momento, ma la società secolarizzata e i cattolici mondani risposero che il vestiario deve essere determinato dai costumi del luogo e dalle circostanze, usando, così, una ragione formalmente vera maliziosamente argomentata su premesse false. Infatti, anche San Francesco di Sales scriveva nella Filotea: “Per quello che riguarda la stoffa e il taglio degli abiti, il decoro va collegato a diverse circostanze: di tempo, di età, di rango, di ambiente, di situazioni”, ma di certo non slegava questa affermazione dall’assioma per cui tutto deve trovare il suo fondamento in Cristo e radicamento nella virtù, tanto che aggiunge: “Abitualmente ci si veste meglio nei giorni di festa, tenuto conto anche della solennità che ricorre; in tempo di penitenza, come in Quaresima, si veste in tono molto dimesso; se vai a nozze ti vesti con l’abito adatto alle nozze; se vai a un funerale, con l’abito adatto al funerale; se vai dal principe, alzi il tono; se resti con i domestici, ti adegui a loro. La donna sposata, quand’è col marito, deve ornarsi per piacere a lui, se lo facesse quando lui è lontano sarebbe lecito chiedersi agli occhi’ di chi voglia essere piacente”.

La Contessa Laura di Baezia, scrisse nel suo libretto intitolato “La sposa cristiana”: “L’ornamento di una donna cristiana, ben differente di una donna del mondo, deve servire a distinguerla fra le altre. Semplice e nobile come la sua anima, quest’ornamento deve evitare ogni ricercatezza, ogni singolarità, e dirò ancora ogni eleganza da farla primeggiare. La modestia è quasi sempre la compagna della grazia, e tutte due sono l’indizio di un’anima bella, assai più bella di quella che regna con un sì grande impero. Per chi si ornano le donne con tanto lusso, e con tanta sollecitudine? Forse per piacere al loro marito? Ohimè! no, o almeno quasi mai. Sì, cosa troppo dolorosa a dirsi e più ancora ad immaginarla: è per piacere ad altri uomini, per comparire ai loro sguardi più bella e più amabile delle altre donne, e non di bada, così inebriandosi del piacere d’essere ammirata, che una donna cristiana deve piacere solo a suo marito: e più si renderà amabile a suo marito, quanto meno si sforzerà di piacere meno agli altri. Nell’abbandonarsi così a questo eccesso di vanità e di follia si dimentica che si va incontro al pericolo di eccitarsi nei cuori delle passioni funeste, dei pensieri, dei desiderii, dei quali ogni donna onorata dovrebbe arrossire, e dei quali queste povere stolte, saranno forse un giorno responsabili, quantunque non v’abbiano preso parte, e severamente punite”.

L’attuale sensibilità pastorale sembra avere dimenticato questo aspetto, per ragioni che meriterebbero un capitolo a parte, ma non sarebbe giusto puntare il dito solo verso una sensibilità ecclesiale malata, perché i nostri figli, nipoti, amici, conoscenti, hanno perso conoscenza del pudore perché anche noi non siamo testimoni credibili e coerenti, perché se possiamo essere portatori di un modo di intendere sul piano estetico, diveniamo volgari nelle movenze, nelle espressioni e nei pensieri, vanificando quegli sforzi che, alla fine, divengono accusatori di un certo formalismo che deteriora la nostra testimonianza.

Quanto abbiamo detto è ben lungi dal proporre un modello comportamentale per il quale la sobrietà voglia tradursi in disordine, sporcizia e sciatteria, poiché ciò sottolineerebbe un disordine spirituale da cui vogliamo egualmente fuggire. Il Card. Siri, infatti, sosteneva: “L’abbigliamento […] è la prima cosa che si vede, l’ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti alla azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barriera del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni. Obbliga a riflettere, a contenersi, ad essere in consonanza con l’ambiente al quale l’abito ci ascrive. Ha la capacità di dare, per salvaguardare quel pudore, una forza che senza di esso non esisterebbe affatto; riesce ad impedire che si oltrepassino certe soglie; trattiene le espansioni, le curiosità morbose”.

Il nostro apparire, dunque, sia degno della presenza di Dio in noi (1Cor 6,19), poiché leggerezza e negligenza su tale argomento ci dispone facilmente a gravose cadute, così come insegnava il santo di Pietralcina: “Desidero che voi tutti, miei carissimi figli spirituali, attacchiate con l’esempio e senza alcun rispetto umano una santa battaglia contro la moda indecente.

Dio sarà con voi e vi salverà!… Le donne che cercano la vanità nelle vesti non possono mai appartenere a Cristo, e codeste perdono ogni ornamento dell’anima non appena questo idolo entra nei loro cuori. Si guardino da ogni vanità nei loro vestimenti, perché il Signore permette la caduta di queste anime per tali vanità”.

Di Paolo De Bei

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VERA FEDE E FALSE RELIGIONI

Al paragrafo 1807 del Catechismo della Chiesa Cattolica è chiamata “virtù di religione” la giustizia che l’uomo ha nei confronti di Dio.

L’oggetto della religione, infatti, non è immediatamente Dio, ma è rendere il culto dovuto a quell’Essere trascendente e onnipotente che un retto intelletto riconosce esserci e dal quale è consapevole di dipendere. 

E’ lo stesso San Tommaso d’Aquino che annette la virtù di religione alla virtù della giustizia, ponendo in essere una figurazione dell’uomo come naturalmente religioso. La giustizia, infatti, non è una virtù teologale infusa da Dio con il battesimo, ma è strettissimamente legata all’anima naturale, ovvero alla natura propria di ogni creatura spirituale.

E’ lecito dire, dunque, che Dio ci ha pensato “religiosi”, ovvero naturalmente inclini a cercarlo per amarlo e servirlo, per quanto, spesso, il nostro intelletto possa rimanere confuso dall’osservare un numero così elevato di religioni, nonché disorientato da affermazioni che sembrerebbero volere equiparare la fede in Cristo ad altri culti religiosi.

Per affrontare un discorso intorno alle religioni, bisogna essere pronti ad affermare proposizioni che potrebbero sbalordire il semplice fedele. Infatti non possiamo dire che Dio non voglia assolutamente alcuna religione che non sia quella cristiana: ciò porterebbe a sostenere l’incapacità di Dio di annullare ciò che non vuole, mentre noi sappiamo che Dio è assoluto ed onnipotente.

In qualche modo, dunque, dobbiamo ammettere che Dio permette l’esistenza delle altre religioni, ma bisogna capire in che senso.

Infatti, tutto ciò che esiste è sostenuto in essere dal volere di Dio, il quale non solo dà vita, ma è alla base dell’esistenza di ogni realtà. Esempio palese di questa verità è l’esistenza dei demoni, i quali, seppure malvagi, hanno come causa del loro esistere Dio.

Nel sostenere l’esistenza delle sue creature, Dio rispetta anche quella libertà che ha posto alla base delle nature spirituali… La libertà, infatti, viene mantenuta in essere anche nei suoi effetti nefasti, che non sono voluti direttamente da Dio, ma avvengono come conseguenze di un uso difettato del libero arbitrio.

Certamente, l’atto non buono si verifica perché Dio lo mantiene in atto (altrimenti non esisterebbe): lo tollera per portarlo misteriosamente ad un bene maggiore, ma certamente non si può dire che sia stato direttamente voluto da Lui, né che Egli lo approvi. 

In modo differente, invece, Dio si relaziona con ciò che è vero e buono, perché direttamente subordinato alla sua volontà.

Analogamente vanno considerate le religioni: la fede cristiana-cattolica dobbiamo intenderla come l’unica direttamente voluta da Dio, perché la sola a rivelare il vero Dio e la sua santa dottrina. Le altre religioni vanno intese come mantenute in essere da Dio, ma non come espressione della sua volontà.

Quegli elementi veri e positivi presenti nelle altre religioni vanno considerati come beni propri del credo cattolico prestati all’altrui fede. Le false religioni non hanno beni propri, ma solo beni propri dello Spirito Santo che si manifesta all’interno della falsa religione, mentre gli errori sono propri delle false religioni.

Al numero 132 del Catechismo di S. Pio X si recita:

Chi è fuori della Chiesa si salva?

Chi è fuori della Chiesa per propria colpa e muore senza dolore perfetto, non si salva; ma chi ci si trovi senza propria colpa e viva bene, può salvarsi con l’amor di carità, che unisce a Dio, e, in spirito, anche alla Chiesa, cioè all’anima di lei.

E’ un passo che ci ricollega, in ultimo, ai concetti iniziali. Dio ha creato l’uomo come naturalmente religioso e ha dato un’unica fede come vera: quella professata dalla Chiesa Cattolica. 

Accade, però, che molte persone professino fedi differenti, ma anche se abbiamo visto che le religioni false non siano direttamente volute da Dio, non possiamo pensare che tutti i non battezzati siano destinati alla dannazione.

Coloro che, per ignoranza invincibile, non potranno conoscere adeguatamente Cristo, ma che faranno il possibile per condurre una vita giusta secondo coscienza, per quanto immersi nell’errore, accederanno un giorno alla visione beatifica di Dio, grazie ai meriti di Cristo, unico salvatore.

Va aggiunto, però, che non è l’esperienza religiosa in se stessa che è buona, ma è quella parte di verità che viene conosciuta attraverso tale esperienza, verità che è indipendente dall’uomo e che non è da lui prodotta. La verità non è prodotta dal sentimento religioso dell’uomo, per quanto partecipato e profondo, ma è qualcosa che Dio scrive nel cuore dell’uomo, sia attraverso l’intelligenza naturale, sia attraverso ciò che Egli può rivelare.

“Conoscere adeguatamente Cristo” non vuole avere significazione di sola intellettualità, ma vuole intendere una conoscenza della fede cristiana congrua alla sua ricettività e, pertanto, credibile. Infatti, Dio si serve dei suoi testimoni affinché la dottrina possa rendersi viva nelle anime lontane dalla vera fede: una diffusione della dottrina senza l’irrigazione della testimonianza personale e dell’azione della grazia, non potrà mai dirsi credibile. 

In tal senso nasce l’esigenza della missionarietà della fede, a cui ciascuno di noi è chiamato nel rispetto dei suoi doveri stato.

Dunque, rimaniamo fermi nella cattolicità del nostro credo, consapevoli che uno solo è il poema d’amore scritto da Dio per noi: il Vangelo di Cristo Signore. Rimaniamo certi che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità e che uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù,che ha dato se stesso in riscatto per tutti. (cfr. 1Tm 2,3-6)

di Paolo De Bei

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UNA PREGHIERA DI NATALE

E’ Natale. Nasce il Pargolo la cui sostanza mi è Padre, ma che è Figlio prima di tutti i secoli.

La Tua Regalità trova custodia nella povertà di Betlemme e, al cospetto della Tua innocenza bambina, la mia anima si prostra disarmata.

Gli angeli Ti accolgono in canto, il mondo prepara il suo disprezzo.
Ti culla la Vergine, vigila il casto sposo, Ti saluta la notte stellata, Ti avvolge il freddo, Ti accoglie il fuoco, Ti annuncia il vento, Ti proteggono il bue e l’asinello, Ti adorano i pastori, Ti osannano le schiere celesti.

Principe della Pace, al cui cospetto lupo e agnello trovano concilio, già in Te drappeggia il vessillo della Redenzione e la speranza si accende in attesa della verga della Tua parola, fonte di gioia per il giusto, di pentimento per il peccatore, di morte per l’empio.

Virgulto di Iesse, Dio con noi, Eterno nostra giustizia, il deserto già prepara le Tue vie. Annunciato dai profeti, misteriosamente prefigurato dai gentili, in Te sono benedette tutte le famiglie della terra.

Sei Colui che dà riposo, Colui al cui scettro obbediranno tutti i popoli.
Dominatore dei cuori, Padrone dei giorni eterni, in Te si raddrizza nella steppa la strada che porta al Padre.

La “Piena di grazia” medita in Te il frutto del suo seno, leggendo nel Tuo sorriso la gloria dei trionfanti, nelle Tue lacrime la via che ad entrambi trafiggerà il cuore.

Nel Tuo riposo ritrova la pace dell’angelico annuncio, nel Tuo abbraccio la misericordia che si stende su coloro che temono Dio. Nella Tua neonata impotenza contempla Colui che ha rovesciato i potenti dai troni, nelle Tue pupille la compiuta promessa fatta ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.

E lui, Giuseppe, l’uomo con missione di arcangelo, contempla in Te il Profeta dell’Altissimo per tutte le generazioni, sole che sorge che libererà molti dall’ombra della morte. A Te si prostra, Dio bambino, pronto a servire senza timore Colui che in Te, E’.

Anche io, seppur ottenebrato ed indegno, mi prostro e Ti saluto mio Salvatore e, ammaestrato dalla Madre Tua, magnifico il mistero dell’Unto del Signore, vero Dio e vero uomo.

Con sincerità e libertà proclamo la mia fede in Te, Cristo Signore, mio Re giusto e vittorioso, mite ed umile di cuore, pacifico condottiero dell’anima mia.

In questo Natale possa appianarsi in me la strada che a Te conduce: ogni valle sia colmata, ogni monte abbassato e possa il tuo Nome rivelarsi alla tiepidezza del mio
spirito.

Porgo l’orecchio al Tuo vagito, affinché, al suono della Tua voce, in me si rischiarino gli antichi misteri. Fissa in me la Tua verità e che la carità permanga stabile e salda come il cielo. Che la mia fede non vacilli e possa da Te apprendere il diritto come misura e la giustizia come livella.

Sulle mie tenebre possa trionfare la Tua luce, e la mia volontà possa trovare fortezza nella grazia che mi hai ottenuto a caro prezzo.

Da me non stare lontano, poiché il leone sbrana e ruggisce ed io solo in Te trovo difesa. Per Tua grazia si taciti per me il triplice canto del gallo.
Alla Tua mangiatoia depongo i miei peccati e ciò che ad essi mi lega. Dà ordine ai Tuoi angeli di custodirmi nel tragitto che a Te conduce.

Elargiscimi la dimenticanza di me e la noncuranza delle umane valutazioni; conducimi ad unire dolcezza e schiettezza, così da usare la carità senza offendere la verità; mostrami le vie dei cuori, affinché possa condurre anime alla grotta di Betlemme; concedimi soprannaturale fermezza e audacia nella tempesta; rendimi impavido contro i Tuoi detrattori e pronto nella difesa di coloro che mi hai
messo accanto.

Il Tuo nome, Gesù, sia il canto di ogni istante, fino al giorno in cui, anche per me, tutto sarà compiuto.

E’ Natale. Gloria a Dio nell’alto dei Cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Amen

Di Paolo De Bei

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IL DONO DELLA POVERTA’

La povertà teologica consiste nell’ammissione della propria insufficienza di fronte a Dio, a se stessi e al prossimo, e le sue molteplici manifestazioni sono sempre espressione della sequela Christi intrapresa dall’anima.

E’ un autentico frutto della carità, concreta espressione di chi, ad imitazione di Maria, rimette ogni suo bene al Signore Dio: “Fiat mihi secundum Verbum tuum”. Ciò, quindi, non comporta la sola disciplina esteriore dei beni materiali, emotivi ed affettivi, ma anche l’eroico annullamento dei lacci invisibili che ad essi ci legano.

La vera povertà è un graduale distacco da se stessi, un decentramento finalizzato ad una sempre più perfetta genuflessione dell’io dinanzi a Dio, e non per giungere al vuoto proposto dalle filosofie orientali, ma per giungere alla pienezza di Spirito Santo.

Infatti, la povertà è necessariamente un dono della grazia di Dio, che, unitamente ad una volontà ben disposta e tenace nei suoi intenti, riempie lo spirito umano del suo soffio, unico capace di vanificare la luccicanza ingannatrice del mondo.

L’anima ambiziosa di ricchezza arriva a credersi meritoria di ogni bene e giudica ogni privazione un’ingiustizia. Vive con il timore di perdere prestigio e tutto ciò che non può avere, istintivamente lo invidia. Incontentabile, ambisce e compete, concedendo amicizia in cambio di plauso e interesse. Continuamente sollecitata da capriccio, vive nell’eterno conflitto tra l’accumulo dei beni ed il loro sperpero, nella vanagloriosa attesa di essere incoronata principe di questo mondo.

Incapace di concepire un pensiero non finalizzato ad un interesse, filtra quanto osserva con lo sguardo del sospetto e arriva a confondere la prudenza con la malizia, fino a crearsi fantasmi nella mente, che lo portano all’ostinata convinzione di trovare ladrocinio in ogni azione del suo prossimo.

Ma dietro alla sua boria, all’apparente realizzazione di un io che riconosce solo se stesso, compare sempre un mortale nemico. Un serpente silenzioso ed appostato, che, avendo scovato il punto debole della preda, aspetta il momento giusto per iniettare il suo veleno mortale, attraverso il quale aggredisce con la verità e confonde con la menzogna.

Tutto d’un tratto l’anima si scopre sola, disperata, incatenata a piaceri che non soddisfano più ma di cui è incapace di privarsi. E la superbia, resa gigante dalla voracità dell’io protratta negli anni, non le permette più di concepire una salvezza che non sia data da se stessa.

A questi suoi dissennati figli, il Dio amico degli uomini offre l’antidoto al veleno delle ricchezze: “Beati i poveri, perché di essi è il Regno dei Cieli”.
Il Vangelo incenerisce la ricca argomentazione del superbo con la disarmante semplicità del Re che “non ha dove posare il capo” (Mt. 8,20) e che nel distacco dai beni terreni vede solo una delle tante espressioni della povertà.

Ma che senso ha rinunciare ai propri beni se non si deposita ai piedi dell’altare anche il desiderio che nutriamo verso essi? Che senso avrà il nostro abbandonare il superfluo, se non si riuscirà a tacitare i rimpianti del passato, a disciplinare le inclinazioni affettive, ad accettare la nostra vita per come Dio la propone? Celeremo sempre una ribellione, il grido rabbioso di chi nel profondo si intende come costretto e violentato dalle circostanze. Sarà una povertà materiale, talvolta una povertà affettiva di fatto, magari ammirevole nella sua condotta pubblica, ma inevitabilmente frustrata, pentita, destinata a sviluppare dentro l’anima una ricchezza nascosta, segreta, ipocrita, sofferente perché insoddisfatta, superba perché ribelle, traditrice perché menzognera. Essa, dunque, non sarà espressione di beata povertà, ma di astiosa miseria, nella quale non si condurrà la stessa viziosa vita del ricco perché materialmente impossibilitati a farlo, ma la natura dei propri pensieri e delle proprie azioni sarà la medesima.

La chiamata alla povertà non va intesa come una “super-vocazione”, rivolta ad anime predestinate a chissà quale missione. Essa è condizione propria di ogni cristiano, di ogni battezzato che ha risposto con slancio alla voce d’amore del suo Signore, nel rispetto dello stato di vita in cui è incardinato.

Povertà, dunque, non significa necessariamente l’abbandono materiale di ogni cosa, ma fare in modo che tutto diventi strumento di carità al servizio del Vangelo.
La povertà finisce ai piedi dell’altare diceva San Francesco d’Assisi. Beati i poveri, coloro che ritrovano ogni ricchezza tra le braccia di quel Padre che ama riconoscere nei cuori la povertà del Figlio.

di Paolo De Bei

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IL DEMONE MERIDIANO

La tradizione spirituale orientale la chiama “akedia”, o “il demone meridiano”: un misto di accidia ed ira che spinge all’introversione più buia e rigetta fuori l’uomo nella comunità con gli artigli sguainati contro i fratelli. Così si arriva a “combattere il manicheismo” comportandoci da perfetti manichei. Le fazioni nella Chiesa –catto-comunisti, catto-liberali, spiritualisti, materialisti, manichei, bergogliani e anti-bergogliani – originano tutte da qui

di Paul Freeman per © La Croce quotidiano

Il Demone della Tristezza, un buco nero

La Tristezza nasce dalla superbia

Perché ti rattristi, anima mia,
perché su di me gemi?
Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui, salvezza del mio volto e mio Dio. (Sl. 42,6)

Di solito leghiamo la tristezza ad un qualche stato depressivo o meglio di melanconia. Nei nostri tempi, carichi di politicamente corretto, si depreca la rabbia e l’ira ma non la tristezza. Questo perché la tristezza conserva una specie di fascino dell’introspezione ma, sotto sotto, se siamo attenti, è perché essa è lo specchio migliore di un cuore superbo.
La Tristezza, ha prolungato, culturalmente, quel sentimento di Tristano e Isotta, distorsione dell’amor cortese, che celebra sé stesso e non l’amato.
In tempi più recenti quello dell’eroe romantico che sfida il destino, contro tutto e tutti, in una sorta di martirio nichilistico che si nutre del nulla ma, in definitiva, posto a celebrare sé stesso.
Il Demone della Tristezza, in certo qual modo, rivela le fondamenta e l’epilogo del soggettivismo: il culto di sé finanche nella sofferenza estrema.

Nella tradizione dei padri orientali i vizi, come già detto, non sono solo sette ma secondo le scuole otto o addirittura nove. In un famoso trattato ascetico di Evagrio Pontico (monaco cristiano del IV secolo d.C.), la Practikè, l’autore elenca gli otto ostacoli che ci separano da Dio. Questi ostacoli sono chiamati loghismoi, che letteralmente vuol dire “pensieri”. Pensieri cattivi che dividono l’uomo da sé stesso e dalla via naturale e sovrannaturale del bene.
Hanno dunque funzione diabolica, divisoria.
Il grande lavoro introspettivo alla luce della Tradizione e della Parola compiuto dai Padri del deserto, che hanno cercato la via della santità con una vocazione eremitica e comunitaria nel deserto, ha colto nel “Demone della Tristezza” un potente e feroce nemico del cuore dell’uomo.

Perché?

Perché la Tristezza, a differenza di altri vizi di natura improvvisa, come l’ira o come la lussuria, non è una perversione necessariamente di una virtù, di una cosa buona, ma un sentimento perverso chiuso che guarda sé medesimo e che trova, addirittura, nella sofferenza il suo alimentarsi.
Il Demone della Tristezza gode della frustrazione, della sofferenza e della tragedia, propria e altrui.

La frustrazione generata dal senso di colpa dopo un peccato, ad esempio, è nettare per la Tristezza.
In certo qual modo la Tristezza è quanto di più lontano dal senso del peccato, che è cosa sana, cioè da quanto può portarci seriamente alla conversione.
Dice San Paolo:

“la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza,
mentre la tristezza del mondo produce la morte” (2Cor 7,10).

La Tristezza secondo Dio nasce dal “senso del peccato” ed è in vista di una relazione con Dio. Quindi spinge ad una metànoia, ad una conversione. Ad un sano dolore che porta ad un movimento di comunione e di verità con Dio.
Era la Tristezza “naturale” che poteva sgorgare facilmente nel cuore di Adamo e di Eva che avevano una condizione naturale di visione di Dio e delle sue sante operazioni ben diversa dalla nostra.
Invece proprio Adamo ed Eva lasciano spazio al sentimento “carnale” e “mondano” del “senso di colpa.
Distruttivo.
Cioè quella ricerca di sé nonostante sé e nonostante la realtà, fuori di sé e del proprio cuore.
Qui si colloca il “Demone della Tristezza”.
La Tristezza infatti cerca l’essere nel non essere e nell’abbrutimento dell’essere stesso, ed è alleata profonda della disperazione.
Anzi la disperazione è figlia del Demone della Tristezza. Come spiegarla?

Forse le categorie che abbiamo introdotto nel ciclo di riflessione sui Bisogni Fondamentali e la Filautia ci possono aiutare (Serie di riflessioni sui Bisogni fondamentali e la Filautia).

La Tristezza è legata anch’essa al Bisogno di Identità.
Quando questo bisogno, buono e propedeutico all’essere dio in Dio, figli nel Figli, è stato ferito, esso cerca spasmodicamente un poter essere e, talvolta, anche a costo di essere senza Dio. Il quale è appunto l’anticamera del nichilismo e del nulla, la disperazione.
La Tristezza, dunque, è frutto di un animo superbo e dell’assurdo ontologico che la Superbia (Il grande peccato: la superbia), la vanagloria e la vanità portano in sé. E tale demone si inserisce perfettamente anche in anime che hanno maturato una certa virtuosità.
Anche in anime molto avanti nel cammino di santità.
Un certo culto disordinato delle devozioni, della “teologia della croce”, di uno smodato ruolo di essere salvatori e/o salvatrici delle situazioni.
Un non distaccato ruolo di leaderismo.
Un bisogno reiterato di trovare vittime per fare le crocerossine o i crocerossini è il segno che l’io sta mendicando in “cisterne screpolate”.
C’è quasi un sesto senso nelle anime in preda al Demone della Tristezza, esse trovano situazioni o persone che possano farle sprofondare o confermare ancora di più in questo stato malato. Anzi auto-malato.
Si crea dunque un circolo vizioso allargato. Che spegne la Carità e porta alla mormorazione e alla detrazione. Al cinismo ed alla auto-consacrazione.
Un circolo “tanatofilo”, amante della morte.
Non si dimentichi le attuali campagne pro-eutanasia. Personali e collettive.

Questo auto-alimentarsi nel nulla è tipico del primo angelo, portatore di Luce, caduto nei miasmi di sé stesso (satana, il nemico dell\’uomo e ladro della gioia). Egli è il primo Triste, secondo questa accezione. Confermato nella Tristezza, che è l’Inferno.

La scrittura dopo di Lui ricorda proprio Adamo ed Eva che, in preda alla Tristezza, si sentono nudi e si nascondono da Dio. Ma, come dicevamo in una approfondita riflessione esegetico-spirituale su queste pagine (L’amore di sé e i tre #bisogni fondamentali), non cercano di uscire dalla tristezza e generano la violenza dello “scaricamento della responsabilità” e dell’accusarsi a vicenda. Della divisione.
Il triste, infatti è un cuore solo, incapace di comunione.
Ma di questa incapacità e di questo inferno si nutre.
Pertanto dire “l’inferno sono gli altri” (“l’enfer, c’est les autres”, Jean-Paul Sartre) è la manifestazione di un cuore immaturo che è incapace di uscire dal bozzolo della Tristezza che ogni giorno si costruisce e si auto-edifica, per poter essere.
Soffro dunque sono.
Qui compie il suo Bisogno di Identità. Ed è il culmine della Superbia proprio perché non disordina un bene ed un buono, ma si alimenta del vuoto prodotto dal suo cuore.
Il Demone della Tristezza, dunque, si lega bene con l’immaturità ed il narcisismo ed anche con alcune forme di omo-erotismo.

Tuttavia il primo personaggio che la Sacra Scrittura indica esplicitamente in preda alla Tristezza è Caino. Egli è triste perché guarda la sua “non riuscita”.
Non gioisce di quanto ha potuto fare e non gioisce di quanto ha fatto il fratello ma si rinchiude in un sentimento di Tristezza che, covato, porterà prima all’invidia ed alla gelosia e poi all’ira (orgè) ed infine all’omicidio.

Ma Dio, che gli vuole bene, e che conosce il cuore dell’uomo, gli dona un consiglio, una parola di vita fondamentale, suggerimento della mente, calore del cuore, forza nelle mani:

«Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto?
Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta;
verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo» (Gn. 4,6-7)

La Tristezza e l’empietà

Il Demone della Tristezza è legato strettamente all’empietà.
Cos’è l’empietà?
È il contrario della Pietà, cioè dell’affezione verso Dio.
Ne abbiamo parlato in passato quando abbiamo parlato dei doni dello Spirito Santo (Il dono della Pietà).
Proprio questo dono, la Pietà, è un moto di affezione, di tenerezza, di sostegno, che parte da Dio.
Dio la dona a Caino e si rivolge a lui come un padre, quasi come una madre.

«Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?
Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto?
Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta;
verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo» (Gn. 4,6-7)

Dio, dunque, cerca di prevenire quello che potrebbe accadere se Caino coltiva in sé il Demone della Tristezza. L’invidia e la gelosia, il ripiegamento su di sé, il “volto abbattuto”, lo porteranno, infatti, all’omicidio.

Qual è il meccanismo che agiva nel “volto abbattuto” di Caino?
Non la pietà verso Dio. Non l’affezione verso l’Altissimo, ma il “culto dei torti subiti”.
Questo era l’altare dell’offerta per Caino, manifesto e nascosto, che pian piano lo porterà ad essere sordo alla grazia ed alla potenza rigenerante e guarente della Parola e lo porterà a considerare anzitutto il fratello, altro da sé, a spezzare la comunione:

“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn. 4,9).

Questa affermazione di Caino è una “Professio della Tristezza” coltivata, che prima lo ha portato alla fazione, al secare sé stesso da Dio, da sé medesimo e dalla sua famiglia, quindi al settarismo, e poi all’omicidio.

È un bene che Dio lo porti qui, a svelare il “pensiero”, il loghismoi del suo cuore, la sua Tristezza, perché così lo porta alla luce perché possa ritornare (Shuv) a Dio, a sé stesso ed ai suoi.

“Riprese [Dio]: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra». Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere». Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.” (Gn. 4,10-16)

La medicina comminata da Dio è quella di una cura e di un ritorno alla vita.

Dio spezza il gioco di morte, di cui parleremo a breve, la fazione che genera fazione, la divisione, e l’omicidio.

E quanto è importante la medicina data da Dio.
Quanto è importante la dimensione medicinale dopo il peccato e, talvolta, prima che esso venga consumato.

Beato chi ne coglie la dolcezza, dietro l’amarezza temporanea.

“Gettiamoci nelle braccia del Signore
e non nelle braccia degli uomini;
poiché, quale è la sua grandezza,
tale è anche la sua misericordia”. (Sir. 2,18)

La Tristezza e le fazioni vittimistiche

Don Fabio Rosini, in una bella catechesi su tale demone, quello della Tristezza, porta ad esempio l’iperbole, del popolo tedesco, convinto da Hitler di essere vittima degli ebrei, tale da scatenarne la persecuzione.

C’è molto del vero in questa iperbole che illumina il macrocosmo dei demoni che affliggono interi gruppi di persone, addirittura di popoli: quello di essere vittime.
Caino si sentiva una vittima e aveva spezzato la comunione con Abele e da qui, da questa divisione nasce il vittimismo mortifero che lo porterà all’omicidio.

Così si comportano i vittimisti, in preda al Demone della Tristezza, sono faziosi e portano alla fazione.
Alimentano il distinguo, non per una comunione maggiore e verso un orizzonte di Eternità in Dio, ma per una divisione eterna. Una condanna eterna.

Però, mentre dobbiamo stare molto attenti a non cadere nel Demone della Tristezza e non essere tra coloro che si percepiscono come vittime dobbiamo, nel contempo, gettare ponti di comunione o, perlomeno, ed è arte di Carità, non alimentare reazioni vittimistiche inadeguate.
Per il bene dell’altro e per il bene della comunione.

Cerco di spiegarmi.

Molto bello e prezioso il gesto di Papa Francesco di includere nel Giubileo della Misericordia i fratelli della Comunità di San Pio X (“Lettera del Santo Padre Francesco al Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione all’approssimarsi del Giubileo Straordinario della Misericordia” e “Misericordia et misera”). Riconoscere il valore di altre prospettive, nell’alveo della cattolicità, e saperle orchestrare senza stigmatizzare è il compito di un pastore.
Orchestrare significa valorizzare ogni strumento e colui che lo suona.
Non certo dire al flauto tu sei un clarinetto o alla gran cassa tu sei un violino.
Ognuno ha il suo ruolo nell’economia del Regno ed ognuno, non senza tensioni dialettiche, porta il suo contributo.
Quello che a volte appare dissonante è sinfonia che sta preparando lo Spirito del Signore, magari accordando gli strumenti; con arte.
Perché anche la Pastorale è Liturgia e qui si fonda.

Meno bene, invece, facciamo noi, e specie chi per bisogni (sì bisogni rimossi o negati o comunque non esternati alla coscienza), vive di “identificazione proiettiva” o “bisogno di piacere al capo”. Ogni papato ha i suoi.
Sovente quando noi cadiamo in queste trappole dello spirito della Tristezza siamo fazionisti, divisori.
Chiamiamo “satana” i nostri nemici o chi non la pensa come noi.
Trolliamo in su ed in giù per i social alla ricerca di esternare la nostra tristezza (vile e fonte di detrazione) con la patina di servire il Regno mentre stiamo solo alimentando divisione, nichilismo, mormorazione, invidia, gelosia e morte. Siamo amanti della infelicità, amanti della tristezza.

Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla”,
ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. (Ap. 3,17)

Cerchiamo la morte dell’altro (ora, stesse da parte!), ma ci fermiamo alla “morte civile”, giusto per non passare per incivili e svelare al pubblico e a noi stessi il marcio che abbiamo nel fondale del cuore. Il dramma è che così alimentiamo il Demone della Tristezza che portiamo dentro e rafforziamo il baratro del cuore. Cosa ancora più grave, alimentiamo le divisioni e le fazioni e non spezziamo le catene di morte come fa Dio:
«Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!».

Insomma rafforziamo il Demone della Tristezza in noi e nei fratelli.
Manichei combattiamo il manicheismo.
Pertanto ecco fiorire analisi sommarie che condannano non le idee e i comportamenti, con un sano giudizio, ma identificano le idee e i comportamenti con chi li professa e li vive, stigmatizzando.
Catto-comunisti, catto-liberali, materialisti, spiritualisti, manichei, bergogliani e antibergogliani, farisei, lassisti, ecc.

Sui farisei, poi, dobbiamo capirci.
Gesù non stigmatizza una categoria, Gesù condanna un modo ipocrita di pensare e di agire. Ed i farisei non sono necessariamente dei “conservatori” ma possono essere, comodamente, anche dei “progressisti”. Ed in maniera più sopraffina.
Gesù, invece, ha cura dei farisei e stima il loro ruolo, per questo giudica il loro modo di ragionare e le loro pratiche che odorano di ipocrisia.
È dall’amore e dall’appartenenza che sgorga il “guai!” di Cristo, maestro e Signore.

Dobbiamo dunque negare ogni giudizio?

No, ma dobbiamo educare il cuore, la mente e la lingua a considerare che prima delle idee di una persona o del suo comportamento c’è il bene della sua essenza, di quel volto, di quegli occhi, di quella storia e, non in ultimo, che Cristo è morto e risorto per quel “nostro nemico”. Foss’anche un nemico conclamato della Chiesa.

Questo non significa essere “buonisti” o “tatticamente buoni”, e magari dei “buon-intenzionisti”, ma, piuttosto di stare, sempre, alla scuola del cuore del Padre che per la bocca del Figlio, nostro Signore dice:

“Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.” (Mt. 5,38-45)

Questa scuola, inoltre ci aiuta a cogliere quello che lo Spirito sta dicendo attraverso il nemico che, forse, abbiamo stigmatizzato, e che potrebbe essere prezioso per noi e per il bene comune.

Ed ancora..
Che senso può avere ergersi ad interprete, autentico ed autenticato, del magistero petrino, sotto ogni pontificato, ed alimentare correnti e contro-correnti.
La vera corrente e la vera contro-corrente è la santità a cui ci chiama il Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo.

Chi è in preda al Demone della Tristezza fa dipendere tutto da sé stesso e dagli effetti devastanti dell’omicidio, sotto ogni forma. Con le azioni, con la voce, con la tastiera di un pc, con le rigide stigmatizzazioni, con le correnti sottobanco e le tattiche che mancano gravemente alla Carità.

Chi si incammina nella via della conversione, pur facendo tutto il bene, il vero ed il giusto di cui è capace, restituisce il “potere a Dio”.
Sempre.
Non si appropria di nulla. Neanche delle ragioni.
Non ruba, non è ladro, ma grato.
Perché questo è il sentimento della Pietà, la lode, la gratitudine e la restituzione.

E come ieri poteva stupirci la conversione di un peccatore, magari pubblico, domani potrebbe stupirci la conversione di un “rigido fariseo”.
“Si è forse raccorciato il braccio di Dio?” (Nm. 11,23) o non si è forse raccorciato il nostro, di braccio, ed intorpidito il cuore?
Non si è forse obnubilato il nostro sguardo auto-confermandoci in uno status delirante di Tristezza che schiaccia tutto e tutti, con la prepotenza del “nemico di Dio”?

Combattere la Tristezza

“Rallegratevi nel Signore, sempre;
ve lo ripeto ancora, rallegratevi.” (Fil. 4,4)

Ma come si fa a comandare la gioia?

Come dicevamo, il Demone della Tristezza spezza la comunione ed alimenta la divisione.
Divisione con Dio, con i fratelli e con sé stessi. Essa tende a far sprofondare nel buco nero pur di essere.

Spezzando il circolo della Pietà spegne pian piano l’Amore e si diventa cinici, freddi, sclerocardici, insensibili, distaccati e distanti, ed incapaci di gioia.
Si vede solo cose tristi, scritti tristi, riflessioni tristi, film tristi, musiche tristi, si accentua quello smodato culto di sé, infantile e narcisistico.
Si ama la lamentela e le situazioni vengono rese senza Speranza e senza Sapienza.

Ed allora?

Allora occorre una scelta.
La scelta della gioia nel Signore, la scelta dell’Amore.
Nessuno si può dare la gioia ma ciascuno la può scegliere per riceverla.
Proprio il Signore è pronto a donarla nel momento che si ri-costruisce il circolo della Pietà. Anche perché il nostro cuore è fatto per Dio e dove Dio manca, il profondo abisso si rinchiude in sé nei miasmi della disperazione.

Come sarebbe stata diversa la nostra storia e la nostra ferita se immediatamente Adamo ed Eva fossero corsi a Dio con le parole di Davide:
“Ho peccato contro il Signore!” (2Sam. 12,13)

La prontezza nello stanare il Demone della Tristezza ci conferma, pian piano, nello Spirito della Gioia e della lode.

La Tristezza opera il distacco dal fratello, invece la gioia nel Signore opera il distacco dal peccato del fratello e, nel contempo, lega il nostro cuore al suo cuore ferito, con la Misericordia di Cristo.

Ricordava San Francesco nella regola non bollata al cap. 5, 7-8
“.. E si guardino tutti i frati, sia i ministri e servi sia gli altri, dal turbarsi e dall’adirarsi per il peccato o il male di un altro, perché il diavolo per la colpa di uno vuole corrompere molti, ma spiritualmente, come meglio possono, aiutino chi ha peccato, perché non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma gli ammalati.”.

La Tristezza dunque porta al cinismo, mentre la Carità porta alla misericordia. E qui risiede la gioia.
Perché noi non siamo fatti per la gioia e il godimento, ma per l’Amore; per amare nell’Amore e per Amore.

Quando questo accade c’è l’estasi, l’uscire da sé e c’è la vera estetica, quella non narcisistica, e la vera Gioia. Inamovibile.

“Il frutto dello Spirito invece è amore,
gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;
contro queste cose non c’è legge.” (Gal. 5,22-23)
La gioia è dunque un effetto che supera l’intenzionalità e persino la scelta stessa di perseguirla.
Essa è il vento della corsa verso il bene e verso Dio.
La gioia è un frutto dello Spirito Santo e fa parte di un processo.
Fa parte di quelle cose che non si possono creare in sé, come il piacere, la soddisfazione, la felicità, la spontaneità, il buonumore.
Viene sperimentata come un dono, qualsiasi cosa io faccia per procurarmela direttamente fallisce. «Voglio divertirmi!» è un assurdo.
Io posso volere il bene, e allora mi sarà regalata la gioia. Qui si zittisce il Demone della Tristezza. “Taci, calmati, alza il tuo volto!”
Se dunque scelgo il bene nel Signore, avrò la Gioia del Signore.
Ne conosci una eguale, anima mia?

http://www.lacrocequotidiano.it – 22 luglio 2017

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SAN TOMMASO E LA PUREZZA

La confermazione in grazia comporta una certa impeccabilità.
Si precisa però: non un’impeccabilità intrinseca, ma estrinseca, e cioè per una particolare assistenza divina.

Secondo il pensiero comune dei teologi chi è confermato in grazia rimane immune dal peccato mortale, ma non da quello veniale e dalle imperfezioni, come avvenne per san Pietro che a motivo della sua doppia condotta (fatta in buona fede) fu duramente ripreso da san Paolo.

Solo la Beata Vergine Maria ricevette un grado di grazia così alto da rimanere immune anche dal peccato veniale e dalle imperfezioni.

Il B. Raimondo da Capua, parlando del matrimonio spirituale di santa Caterina da Siena con Nostro Signore, afferma che la Santa ebbe come conseguenza quella confermazione in grazia di cui godettero gli Apostoli dal giorno di Pentecoste e di cui fruì anche San Paolo quando gli fu detto “Ti basti la mia grazia” (2 Cor 12,9) (S. Caterina da Siena, Legenda maior, I, 12).

Secondo san Tommaso gli apostoli furono tutti confermati in grazia nel momento della Pentecoste.
Lo fu anche San Giovanni fin dal grembo di sua madre.
Lo fu pure san Giuseppe nel quale, al dire di alcuni, il fomite della concupiscenza era inoperante e dal momento della coabitazione con Maria fu addirittura estinto.

Questa confermazione nella purezza fu così potente che per tutto il resto della vita non passò neanche il più piccolo pensiero impuro nella mente di San Tommaso, come egli stesso confidò prima di morire a fra Reginaldo, il suo primo segretario (Processus canonizationis S. Thomae, p. 291).
Fra Reginaldo raccolse l’ultima confessione di san Tommaso, prima di morire e disse in seguito che era così semplice e puro da parere un bambino di 5 anni.

L’articolo completo si trova qui: http://ht.ly/gMFY308SRsI

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INCARNARE LA FEDE NELLA VERITA’

“[…] Credo che sia importante sottolineare che la fede, perché sia concepita in modo corretto, debba trovare riscontro in una pratica di vita. Fede e vita non vanno mai scisse tra di loro, pena un’inaridimento della fede ed uno svuotamento della vita. Tuttavia, non si deve dimenticare, innanzitutto, che astrarre significa rendere intelligibile ciò che, a causa della sua materialità, non lo è.

Quindi il termine astrarre non indica quello che troppi pensano, cioè usare un linguaggio arido che prescinde dalla concretezza della realtà, bensì semplicemente usare l’intelligenza, così come ci è stata donata, per conoscere ciò che è realmente intelligibile, tenendo conto del principio che dice: de singolaribus non est scientia. Vale a dire: solo Dio ha la conoscenza dell’individuale, poiché il nostro modo di conoscere non può che basarsi sull’universale in quanto astratto, appunto, dalla cosa singola e quindi sempre in stretto rapporto con essa, senza però identificarsi in essa.

[…] Incarnare la fede non richiede svuotarla dei suoi dogmi, delle sue verità, perché l’atto del credere è sempre e comunque un assenso dell’intelletto speculativo e non un sentimento individuale. Certamente, tale atto è preparato dalla volontà in quanto mossa dalla grazia, ma non va confuso con l’atto proprio della carità che è specifico della volontà.

E’ pur vero, tuttavia, che la fede, essendo atto soprannaturale che partecipa all’intellettualità divina in cui la sfera speculativa e quella pratica sono tutt’uno, avrà anche in sé, come elemento proprio, l’esigenza di realizzare nella vita ciò in cui si crede, quindi una certa unione dell’elemento speculativo con quello pratico, in forza, appunto, della sua partecipazione alla intellettualità divina”.

 

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LA GIOIA DELL’UMILTA’

everghetinos-2«Nessuno mente tanto come chi mi loda e mi dice beato», diceva abba Zosima. «E nessuno dice la verità come quelli che mi biasimano e mi disprezzano.» Il valore inestimabile delle offese subite è un tema ricorrente negli insegnamenti dei Padri del deserto ed è strettamente collegato all’imitazione di Cristo: Egli, figlio di Dio, soffrì offese, ingiurie, patimenti e violenze senza rispondere, e senza turbarsi; noi, mortali peccatori, dobbiamo almeno tentare di seguirlo. Perciò dobbiamo essere grati a chi ci offende, perché ci mette in condizione di porre in atto questo tentativo, cosa che da soli non potremmo fare: infatti, «non è di umili sentimenti chi si disprezza da se stesso, ma chi accetta con gioia insulti e disonore da parte del prossimo».

La lode, per contro, è un veleno. «Disse un anziano: “Chi loda un monaco, lo consegna a satana”.» Sia perché qualsiasi lode non tiene conto delle mancanze di chi viene lodato – che anche se non si vedono, ci sono –, sia perché la lode alimenta il fuoco maligno della vanagloria. Ben venga quindi persino la calunnia, l’accusa immotivata, il biasimo immeritato, il giudizio perverso – come ci ricorda abba Poemen: «Qualunque difficoltà ti capiti, la vittoria sta nel tacere».

E ben vengano addirittura i soprusi, le angherie, le percosse. I cenobi del monachesimo delle origini sono pieni di santi monaci che tutto sopportano e si fanno carico dei compiti più bassi, alla ricerca della perfetta e costante umiliazione: Pinufrio si occupa con gioia del letame, mentre Marcello cura gli asini e considera quel servizio alla stregua di una benedizione, tanto che «chiese di venire assicurato per iscritto che non lo avrebbero mai tolto da quel lavoro». La cosa curiosa è che a umiliare tali campioni della virtù, e talvolta anche a picchiarli, sono alcuni dei loro confratelli. Un abba, ad esempio, «veniva insultato e sbeffeggiato da tutti, spesso anche ingiustamente battuto, ma tutto sopportava generosamente, senza mai accusare nessuno di alcunché»; mentre Eufrosino, «quasi sempre tutto nero e sporco [perché lavorava in cucina], era esposto al riso e alle beffe dei fratelli più negligenti, che gli facevano continuamente piovere addosso rimbrotti, insulti e scherni»

https://monachesimoduepuntozero.com/2016/02/13/scherni-soprusi-e-senape/

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