
La povertà teologica consiste nell’ammissione della propria insufficienza di fronte a Dio, a se stessi e al prossimo, e le sue molteplici manifestazioni sono sempre espressione della sequela Christi intrapresa dall’anima.
E’ un autentico frutto della carità, concreta espressione di chi, ad imitazione di Maria, rimette ogni suo bene al Signore Dio: “Fiat mihi secundum Verbum tuum”. Ciò, quindi, non comporta la sola disciplina esteriore dei beni materiali, emotivi ed affettivi, ma anche l’eroico annullamento dei lacci invisibili che ad essi ci legano.
La vera povertà è un graduale distacco da se stessi, un decentramento finalizzato ad una sempre più perfetta genuflessione dell’io dinanzi a Dio, e non per giungere al vuoto proposto dalle filosofie orientali, ma per giungere alla pienezza di Spirito Santo.
Infatti, la povertà è necessariamente un dono della grazia di Dio, che, unitamente ad una volontà ben disposta e tenace nei suoi intenti, riempie lo spirito umano del suo soffio, unico capace di vanificare la luccicanza ingannatrice del mondo.
L’anima ambiziosa di ricchezza arriva a credersi meritoria di ogni bene e giudica ogni privazione un’ingiustizia. Vive con il timore di perdere prestigio e tutto ciò che non può avere, istintivamente lo invidia. Incontentabile, ambisce e compete, concedendo amicizia in cambio di plauso e interesse. Continuamente sollecitata da capriccio, vive nell’eterno conflitto tra l’accumulo dei beni ed il loro sperpero, nella vanagloriosa attesa di essere incoronata principe di questo mondo.
Incapace di concepire un pensiero non finalizzato ad un interesse, filtra quanto osserva con lo sguardo del sospetto e arriva a confondere la prudenza con la malizia, fino a crearsi fantasmi nella mente, che lo portano all’ostinata convinzione di trovare ladrocinio in ogni azione del suo prossimo.
Ma dietro alla sua boria, all’apparente realizzazione di un io che riconosce solo se stesso, compare sempre un mortale nemico. Un serpente silenzioso ed appostato, che, avendo scovato il punto debole della preda, aspetta il momento giusto per iniettare il suo veleno mortale, attraverso il quale aggredisce con la verità e confonde con la menzogna.
Tutto d’un tratto l’anima si scopre sola, disperata, incatenata a piaceri che non soddisfano più ma di cui è incapace di privarsi. E la superbia, resa gigante dalla voracità dell’io protratta negli anni, non le permette più di concepire una salvezza che non sia data da se stessa.
A questi suoi dissennati figli, il Dio amico degli uomini offre l’antidoto al veleno delle ricchezze: “Beati i poveri, perché di essi è il Regno dei Cieli”.
Il Vangelo incenerisce la ricca argomentazione del superbo con la disarmante semplicità del Re che “non ha dove posare il capo” (Mt. 8,20) e che nel distacco dai beni terreni vede solo una delle tante espressioni della povertà.
Ma che senso ha rinunciare ai propri beni se non si deposita ai piedi dell’altare anche il desiderio che nutriamo verso essi? Che senso avrà il nostro abbandonare il superfluo, se non si riuscirà a tacitare i rimpianti del passato, a disciplinare le inclinazioni affettive, ad accettare la nostra vita per come Dio la propone? Celeremo sempre una ribellione, il grido rabbioso di chi nel profondo si intende come costretto e violentato dalle circostanze. Sarà una povertà materiale, talvolta una povertà affettiva di fatto, magari ammirevole nella sua condotta pubblica, ma inevitabilmente frustrata, pentita, destinata a sviluppare dentro l’anima una ricchezza nascosta, segreta, ipocrita, sofferente perché insoddisfatta, superba perché ribelle, traditrice perché menzognera. Essa, dunque, non sarà espressione di beata povertà, ma di astiosa miseria, nella quale non si condurrà la stessa viziosa vita del ricco perché materialmente impossibilitati a farlo, ma la natura dei propri pensieri e delle proprie azioni sarà la medesima.
La chiamata alla povertà non va intesa come una “super-vocazione”, rivolta ad anime predestinate a chissà quale missione. Essa è condizione propria di ogni cristiano, di ogni battezzato che ha risposto con slancio alla voce d’amore del suo Signore, nel rispetto dello stato di vita in cui è incardinato.
Povertà, dunque, non significa necessariamente l’abbandono materiale di ogni cosa, ma fare in modo che tutto diventi strumento di carità al servizio del Vangelo.
La povertà finisce ai piedi dell’altare diceva San Francesco d’Assisi. Beati i poveri, coloro che ritrovano ogni ricchezza tra le braccia di quel Padre che ama riconoscere nei cuori la povertà del Figlio.
di Paolo De Bei